• IL LAVORO INTERMITTENTE

    17 Gennaio 2020

    IL LAVORO INTERMITTENTE

    Dopo il Decreto Dignità, il lavoro intermittente si conferma uno dei pochi strumenti di flessibilità rimasti per le imprese, lo strumento principe della flessibilità.
    La disciplina dell’istituto non è stata, infatti, toccata dalle modifiche legislative che hanno, invece, impresso un consistente giro di vite ai due strumenti di flessibilità per antonomasia: i contratti a termine e la somministrazione di lavoro a tempo determinato. Il lavoro intermittente, o a chiamata che dire si voglia, continua quindi a consentire alle aziende di avvalersi, per periodi discontinui, della prestazione lavorativa al bisogno e cioè previa chiamata del lavoratore con un congruo preavviso (determinato nell’ambito del contratto ma comunque non inferiore ad un giorno lavorativo).
    Il contratto può essere anche a tempo determinato, fortunatamente non è stato oggetto delle stringenti limitazioni apportate dal Decreto Dignità alla disciplina del contratto a termine. Nei periodi in cui il datore di lavoro non utilizza la prestazione, il lavoratore non matura alcun trattamento economico, salvo che gli sia stata garantita l’indennità di disponibilità a fronte dell’assunzione dell’impegno a rispondere alla chiamata, pari al 20% della retribuzione lorda prevista dall’art.19 del nostro contratto collettivo.
    Nei settori caratterizzati da elevata stagionalità il contratto di lavoro intermittente costituisce un valido strumento per garantire manodopera sufficiente alle imprese, senza dover incorrere in tanti vincoli di durata del rapporto e di orario per lo svolgimento della prestazione. Al contratto di lavoro a chiamata anche a tempo determinato, infatti, non si applicano le nuove regole in termini di proroga e durata previste dal decreto Dignità. Inoltre, il legislatore prevede che se il lavoratore ha meno di 24 anni di età o supera i 55 anni il rapporto a chiamata sia stipulabile in qualunque settore. Il rapporto di lavoro intermittente è, in ogni caso, soggetto ad un limite temporale per cui le prestazioni così rese non possono eccedere, un periodo complessivamente superiore, per ciascun lavoratore, a 400 giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni solari, quindi dà modo alle imprese di fruire di un’apprezzabile flessibilità.

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  • FERIE DEI LAVORATORI DIPENDENTI, COSA C’È DA SAPERE

    11 Settembre 2019

    FERIE DEI LAVORATORI DIPENDENTI, COSA C’È DA SAPERE

    Le ferie sono un diritto irrinunciabile sancito dalle norme di legge e, in primis, dalla Carta Costituzionale (art. 36 comma 3), il lavoratore pertanto non può rinunziarvi e qualsiasi patto aziendale contrario, anche individuale, è nullo.
    La legge prevede una durata minima delle ferie di quattro settimane per ogni anno di servizio. Il periodo di fruizione continuativa minimo deve essere di almeno due settimane consecutive, le restanti due settimane, a norma di legge, devono essere godute entro la scadenza dei diciotto mesi successivi al termine dell’anno di maturazione.
    L’esatta collocazione temporale delle settimane di ferie, di norma, spetta al datore di lavoro, come stabilito da un apposito articolo del codice civile, salvo l’applicazione di disposizioni particolari stabilite dal Contratto Collettivo applicato in azienda e/o dall’eventuale regolamento interno.
    Il lavoratore ha solo la facoltà di indicare il periodo entro il quale intende goderne. La fissazione da parte dell’azienda non deve comunque essere arbitraria, o peggio vessatoria, ma mediata fra le esigenze organizzative dell’impresa e quelle del lavoratore, che sarà autorizzato ad assentarsi solo dopo aver ricevuto formale autorizzazione.
    Per comprovate e ineludibili ragioni di servizio il lavoratore in ferie potrà essere richiamato al lavoro, restando inteso che, al medesimo, spetta il diritto di completare il periodo in data successiva e il rimborso delle spese sostenute per il rientro al lavoro dalla località di ferie. L’eventuale rifiuto al rientro, pur essendo sanzionabile in linea di principio, non potrà costituire giusta causa di licenziamento.
    La malattia insorta durante il periodo di ferie ne sospende il decorso, salvo che l’azienda provi concretamente che la malattia è compatibile con la finalità di ristoro delle energie e che il lavoratore ha comunque la possibilità di intraprendere le attività sociali e ricreative proprie di tale periodo. Il dipendente, per vantare questo diritto, è tenuto però a inviare le comunicazioni entro i termini di legge, anche se si trova in luogo diverso dalla normale residenza, onde consentire gli eventuali controlli da parte del datore di lavoro.
    Nel caso di assunzione avvenuta in corso d’anno, il dipendente avrà diritto al monte ore annuale in dodicesimi rispetto ai mesi di servizio prestato.
    Infine un breve cenno rispetto al profilo sanzionatorio a carico dell’azienda che eluda il rispetto del periodo minimo di legge: sono previste sanzioni amministrative di ammontare crescente rispetto al numero dei lavoratori coinvolti.

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  • LA CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO IL PERIODO DI PREAVVISO

    4 Settembre 2019

    LA CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO IL PERIODO DI PREAVVISO

    Il CCNL imprese autotrasporto richiama questo istituto contrattuale all’art. 48 del testo, principalmente dedicato alle condizioni  che determinano la cessazione del  contratto di lavoro. Poiché il preavviso, oltre che dal contenuto del suddetto articolo, è anche regolamentato dal Codice Civile (art. 2118) e da varie prese di posizione della giurisprudenza succedutesi nel corso degli anni, è bene considerare alcuni aspetti che sono spesso motivo di contenzioso. L’obbligo di rispettare il preavviso sussiste sia in caso di dimissioni volontarie del lavoratore, che in caso di licenziamento intimato dal datore di lavoro e, a meno di espressa rinuncia concordata fra le parti, il mancato rispetto del periodo, in tutto o in parte, costituisce inadempienza contrattuale, in relazione alla quale la parte che lo subisce può richiedere un risarcimento in giornate nell’ambito delle durate fissate dal CCNL.
    In sede di assunzione possono essere pattuite clausole che prevedano periodi più lunghi, sia in caso di recesso intimato dal datore, che in caso di dimissioni. In questo  secondo caso è d’obbligo una contropartita economica, a titolo di compensazione per la deroga “in peius” alle norme contrattuali.
    Durante il preavviso il rapporto di lavoro prosegue normalmente: il lavoratore è obbligato ad eseguire la prestazione e il datore di lavoro è tenuto a corrispondere la retribuzione e a  computare il periodo, ad ogni effetto, ai fini dell’anzianità; con l’unico avviso che non potranno essere considerate, secondo la citazione del testo contrattuale, le assenze per ferie, congedo matrimoniale e, di norma, anche malattia e infortunio. Questo comporta la necessità che, verificandosi tali sospensioni, la scadenza originariamente fissata venga spostata in avanti nel tempo fino a copertura delle giornate di interruzione. La legge disciplina anche alcune casistiche al ricorrere delle quali le parti risultano esonerate dal rispetto dell’obbligo in esame, più precisamente: la lavoratrice madre che si dimette entro un anno di età del bambino (alla quale però va corrisposta l’indennità sostituiva), il lavoratore che si dimette per giusta causa, il datore che recede per giusta causa, in caso di mutuo consenso fra le parti, in caso di interruzione durante il periodo di prova.
    Nel caso in cui, come già detto, il preavviso non sia lavorato in tutto o in parte, la parte che ha comunicato il recesso deve corrispondere all’altra un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo, maggiorata dei ratei delle mensilità aggiuntive e di eventuali altri elementi variabili (es. provvigioni, premi di produzione, partecipazione a utili). In caso di morte del lavoratore l’indennità spetta ai superstiti, quali il coniuge e i figli e, se vivevano a carico del prestatore di lavoro, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo.
    Il fallimento dell’azienda non è considerato una giusta causa di licenziamento, in tale situazione è d’obbligo la corresponsione dell’indennità.

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  • LO SCIOPERO

    4 Settembre 2019

    LO SCIOPERO

    Il C.C.N.L. Trasporti dedica un articolo allo sciopero nel CAPITOLO VII, limitandosi all’illustrazione di alcune regole sui servizi essenziali da garantire in caso di sciopero. Il tema trattato rappresenta uno dei diritti fondamentali dei lavoratori, ma, da sempre, è anche uno dei più controversi. Vediamo di seguito alcune norme generali che lo disciplinano. Si tratta di una materia complessa, in quanto volta a contemperare tale diritto con la tutela della sicurezza e dell’interesse della collettività, direttamente, o indirettamente coinvolta, e della realtà aziendale costituita dal datore di lavoro pubblico o privato.
    Il principio cardine sancisce che lo sciopero è legittimo se è preordinato al perseguimento di interessi economici collettivi di una categoria di lavoratori, non dunque a tutela di finalità individuali o di diritti estranei al rapporto di lavoro subordinato. Per quanto riguarda le modalità di svolgimento queste non devono comportare pericolo alla sicurezza delle persone o alla funzionalità e integrità degli impianti dell’impresa datoriale.
    Non sono previsti particolari obblighi formali di comunicazione potendo essere proclamato, fatto salvo il principio di cui sopra, anche da coalizioni occasionali di lavoratori, indipendentemente dal riconoscimento delle strutture sindacali organizzate nell’ambito dell’azienda e della categoria.
    In linea generale non è necessario un termine di preavviso, a meno che l’abbandono del lavoro possa determinare situazioni di pericolo o di danno per le persone o le attrezzature aziendali.
    Sono ammesse azioni a sostegno e alla riuscita dello sciopero, quali la propaganda e l’illustrazione agli altri lavoratori sui motivi e sull’opportunità di aderire; ivi compreso il picchettaggio effettuato da lavoratori scioperanti ai cancelli di ingresso dell’azienda. Vale la pena di precisare che qualsiasi opera di persuasione non può tuttavia trascendere in minacce o percosse, né obbligare i lavoratori non aderenti allo sciopero a interrompere l’attività contro la loro volontà.
    Il datore di lavoro può limitare le conseguenze dannose dello sciopero con il proprio lavoro personale ovvero con i dipendenti non scioperanti, purché siano impiegati nelle proprie o equivalenti  mansioni, senza corrispondere ai medesimi trattamenti di miglior favore. Nella generalità delle disposizioni di legge la giurisprudenza è intervenuta a definire come illegittimi tutta una serie di comportamenti che non consistono in una mera astensione dalla prestazione lavorativa, quali, ad esempio: l’astensione dal lavoro senza l’abbandono della postazione lavorativa; il blocco delle  merci già preparate e pronte per l’immissione nel mercato; il rifiuto di svolgere la propria mansione; la deliberata riduzione dell’attività lavorativa; la modifica arbitraria alle disposizioni impartite  e, in genere, la non collaborazione. Vediamo ora, in sintesi, quali sono i servizi pubblici essenziali volti a tutelare i diritti costituzionalmente garantiti: il diritto alla vita, (attraverso la sanità,  l’igiene pubblica, la protezione civile, l’approvvigionamento di prodotti energetici e di prima necessità); il diritto alla libertà e alla sicurezza delle persone (mediante le attività di pubblica sicurezza  e di amministrazione della giustizia); il diritto all’assistenza e alla previdenza sociale, (mediante le attività volte all’erogazione dei trattamenti retributivi o di quanto necessario al soddisfacimento  delle necessità della vita); il diritto alla libertà di circolazione di persone e cose, (i trasporti pubblici urbani ed extraurbani, i trasporti di merci volti al soddisfacimento dei diritti menzionati, il  trasporto di animali vivi). Con riferimento a tali servizi, è sempre previsto, in costanza dello sciopero, l’obbligo di preavviso attraverso i canali di informazione con termine non inferiore a 10 giorni  e di effettuare le “prestazioni indispensabili” disciplinate settore per settore.

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  • NON VEDO L’ORA DI ANDARE IN PENSIONE

    22 Maggio 2019

    NON VEDO L’ORA DI ANDARE IN PENSIONE

    Quante volte questa frase salta alla mente di ciascuno di noi, che l’impegno sia di natura autonoma o subordinata, imprenditoriale o eminentemente esecutivo non fa differenza, ad un certo punto della vita la sindrome pensionistica sfocia in un pensiero fisso, pulsante, immanente, inarrestabile…. La questione è ancor più all’ordine del giorno in questi mesi in cui si è fatto un gran parlare di riforma della legge Fornero ed è stata introdotta, fra le scontate polemiche politiche fra fautori e detrattori, la cosiddetta quota 100. In effetti dopo gli spensierati (previdenzialmente parlando) anni 60 e 70 del secolo scorso in cui furono varate riforme, ingiustificatamente condiscendenti, dal 1995 in poi è stato un susseguirsi di altre riforme via via sempre più vessatorie a danno dei lavoratori.
    Con l’ultimo atto legislativo del 2011 del governo tecnico del professor Monti, si è raggiunto l’apice persecutorio: via la pensione di anzianità cara a intere generazioni, l’obiettivo di quiescenza è stato focalizzato sull’età anagrafica (attualmente anni 67), con l’ulteriore penalizzazione dell’adeguamento periodico e inesorabile alla speranza di vita. Bene fotografa questo aspetto la metafora del saltatore che si accinge a spiccare il salto  in alto e a cui i giudici di gara gli alzano contemporaneamente l’asticella! La vicenda della legge in questione è nota, a fronte di un certo quale  risparmio sui conti pubblici furono creati centinaia di migliaia di cosiddetti esodati – il numero non è mai stato esattamente quantificato – soggetti in uscita dalle aziende con la copertura di  ammortizzatori sociali che avrebbero dovuto farli transitare alla pensione, ai quali fu trasferita in avanti la data di pensionamento di due, tre e financo sei anni. Le varie salvaguardie di questi lavoratori che i governi che si sono succeduti da allora in poi hanno dovuto finanziare (anche qui con risorse economiche non mai bene quantificate) hanno molto annacquato gli effetti della  riforma. E’ giusto porre dei correttivi? E’ doveroso gratificare gli attuali perseguitati dalla Legge Fornero o è più giusto porre attenzione alle esigenze delle future generazioni per le quali le  prospettive pensionistiche, con l’aumento dell’anzianità di vita, e la contrazione della massa contributiva, paiono ben magre dal punto di vista del potere di acquisto delle future pensioni? L’esperto previdenziale Alberto Brambilla sul quotidiano L’Economia del 15 aprile esprime in analisi della situazione sopra descritta un’argomentazione del tutto condivisibile. In pratica fra le  salvaguardie a favore degli esodati e i successivi correttivi introdotti dai governi che sono subentrati quali l’Ape social, l’esodo anticipato per lavori usuranti, opzione donna e, ora, quota 100, la granparte di quelli che dovevano essere i risparmi della riforma Fornero sono stati erosi……fra lo scontento generale delle parti in causa. Ma torniamo all’ansia per il raggiungimento dell’agognato traguardo. Nell’immaginario di chi lavora e a cui mancano molti anni al raggiungimento della data fatidica di erogazione della pensione, quest’ultima rappresenta una prospettiva idilliaca, la  raggiunta realizzazione di un sogno, un mondo di tempo libero, assenza di responsabilità, relax. Non più tempo limitato e/o parcellizzato per la famiglia e per le proprie aspirazioni personali, ma una vita costruita sulle proprie esigenze. Ma attenzione: il vuoto e la sensazione di inutilità sono in agguato. L’aria di libertà dalla monotonia del lavoro può durare poco, con il tempo arriva il prezzo da pagare con noia e insoddisfazione. Tante sono le storie individuali di depressione post-pensione.
    I più vulnerabili alla depressione sono coloro i quali hanno sempre vissuto l’attività lavorativa come la sfera principale dei loro interessi, delle loro aspirazioni, delle loro fantasie. Unici obbiettivi la  carriera, il potere, la deferenza dei sottoposti. In una definizione il successo è rappresentato soltanto dalla gratificazione del lavoro. Se ciò può essere vero per i pochi privilegiati che svolgono  attività di alto profilo scientifico o artistico, o per chi ha avuto la fortuna di intraprendere ciò che aveva sempre sognato fin da bambino e che quindi si diverte lavorando, non è così per la  stragrande maggioranza degli occupati. Per la massa il lavoro è più propriamente l’attività necessaria al mantenimento delle proprie risorse economiche all’assolvimento del proprio dovere verso  la società, i genitori, la famiglia, se stessi. Anche in costoro, che nel comune discorrere, sono coloro che più dovrebbero godere all’ambita meta, sorge il rischio di non sapere riempire efficacemente il vuoto della quotidianità lasciato libero dal lavoro. Mancano i ritmi, i riferimenti, le abitudini di quaranta anni di vita focalizzati a senso unico. Bisogna prepararsi per tempo. Per prima cosa  occorre avere raggiunto la tranquillità economica per il mantenimento della quale sia bastevole l’assegno pensionistico, da coniugarsi con la sobrietà di vita dovuta all’età. E poi nutrire curiosità per quanto ci sta attorno, intraprendere nuovi interessi, mettersi a disposizione degli altri – a partire dalla propria famiglia – e, perché no, studiare. Finalmente si potrà anche lavorare, ma per  propria scelta, per fare ciò che ci piace, per il tempo che ci aggrada, senza l’ansia di rincorrere la giusta remunerazione… e qui ci fermiamo, altrimenti il sogno diventa irresistibile.

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